14 aprile 2007

Carlo Frisardi
Volto ed imago

a cura di Serena Dell'Aira


In tante maniere si può parlare della luce. Squadernandole, alla fine si rimane convinti che ogni parola è caduca e la stessa percezione della luminosità, così chiara, la più chiara possibile, si appanna.

Tornano in mente così le parole di Zolla e con esse, contestualmente, la sensazione che il sentire di Carlo Frisardi sia puro bisogno di luce e la sua pittura quel bisogno che si appaghi. Rare volte nel panorama dell’arte contemporanea ci si imbatte nel lavoro di un artista le cui qualità caratteriali e creative sembrano rivelarsi immediatamente, ancora prima di averne conosciuto l’intero iter artistico.

Se l’artista sarà stato generoso, mantenendo quel candore dell’animo che antepone la purezza dell’arte al valore venale delle tele, e se questi avrà avuto la capacità di trasmettere la propria poetica a chi le contempla cambiandolo nel profondo, allora certamente ci si trova dinanzi ad uno spirito che penetrando l’altrui sensibilità, lascia impresso un segno forte, affiorando con ogni goccia di luce dipinta.
L’immediatezza dei sensi e della percezione tutta, pare vaga, lontana, come se non fosse più nostra. Ci ri-scopriamo nell’intimo una sensibilità nuova, senza padrone, che chiede solo di essere abbracciata, fasciata forse, per condurci ancora, “alla sua tradita funzione di mediatrice fra la coscienza e l’anima” (M. Zambrano).

Perché la vita avvolge l’essere, abbracciandolo. Ci si trova di fronte a paesaggi di un’insondabile bellezza che si svolge lenta, senza schiere, ed al contempo di una profondità non percepibile esclusivamente come bellezza estetica perché richiede una compenetrata contemplazione, legge che la bellezza porta con sé. Siamo al cospetto di un tempo esteso, non definito, che fluisce come uno spazio ampio, placido.

Nell’opera di Frisardi vive dunque un universo nel quale solo chi ha potuto custodire un cuore innocente riesce a penetrare, abitandone gli spazi incommensurabili della gioia e dello stupore; lo sguardo, posandosi sulle figure che lo abitano, riscopre che “...amore o cresce, o è piena e ferma luce: il primo attimo d’ombra è la sua notte” (J. Donne).

È il tempo della contemplazione che dà respiro.


TORNA ALL'ARCHIVIO EVENTI